“Ci vengono a prendere”, la donna le strinse la mano timorosa. L’altra era seduta alla finestra e guardava fuori. Un piccolo manipolo di soldati nazisti stava arrivando dalla strada. I suoi testi sovversivi in tedesco erano stati evidentemente recepiti. Claude e Marcel avevano appeso per tutta l’isola fotomontaggi di dissenso contro il regime nazista da quando era iniziata la guerra. Claude era pallida in volto, pensava ossessivamente alla sua macchina fotografica e al fatto che l’avrebbero di sicuro presa di mira. Avrebbero bruciato tutte le sue fotografie? Avrebbe dovuto salvarle in una scatola sotto il pavimento ma il non essere stata considerata fino a quel momento l’aveva resa troppo sicura di se stessa. Le divise grigio verde presero a correre verso l’ingresso della loro dimora. Claude si voltò alzando la testa in direzione di Marcel. “Aprigli la porta”.
Claude Cahun è lo pseudonimo per Lucy Schwob, artista surrealista francese di origini ebree nata a Nantes nel 1894. La sua figura è rimasta sconosciuta fino a quando negli anni Ottanta non è stata inclusa in due mostre sul surrealismo. Crebbe in una famiglia dove la sua esistenza era invisibile, caratterizzata da un rapporto difficile col padre, Maurice Schwob, e dalle continue assenze della madre, Victorine Marie Courbebaisse, costantemente ricoverata in istituti psichiatrici. Victorine era affetta da crisi nervose e depressioni croniche, che Claude considerò sempre una sorta di ribellione ad un ambiente famigliare ostile. La mancanza della genitrice le provocò una profonda ferita nell’adolescenza sfociata in anoressia e dipendenza da oppio. A salvarla dall’oblio fu l’arte che scoprì all’inizio all’università (Oxford e Sorbona) nella forma della letteratura. Assunse diversi pseudonimi per arrivare al suo definitivo Claude, scelto per il genere neutro del nome in francese, e Cahun, il cognome del fratello romanziere della nonna paterna, una variante di Cohen (prete in ebraico). Negli anni Dieci fu una delle prime a scrivere di libertà sessuale per omo ed eterosessuali sul giornale gay Amitié.

Quando il padre si risposò conobbe la figlia della matrigna, Suzanne Malherbe, le due si innamorarono e diventarono inseparabili nella vita e nell’arte. Suzanne, acquisendo lo pseudonimo di Marcel Moore, scattò con una Kodak Pocket Camera tutti gli autoritratti di Claude. Foto in cui Claude mostrò il meglio della propria produzione artistica: se stessa. Ogni scatto è una continua affermazione della propria identità sessuale: una donna, un uomo, un essere “ibrido”. Dichiarò che il neutro fosse l’unico genere che le si adattasse ed infatti, a parte una serie dedicata alla natura, si fece vedere raramente nuda dimodoché l’anatomia fosse il più indefinita possibile. Per questo assunse qualsiasi genere di travestimento in una metamorfosi necessaria come un respiro vitale. Il suo testo Aveux non Avenus contiene un fotomontaggio fotografico dal titolo I.O.U Self-Pride (I owe you, sono in debito con te, riferito a Marcel) con la frase emblematica: “Sotto la maschera un’altra maschera. Non finirò mai di sollevare questi volti“.

Claude e Marcel vissero per un periodo a Parigi e poi si trasferirono definitivamente sulle isole di Jersey nel 1937, dove già erano conosciute per fare il bagno di notte e prendere il sole nude, nella dimora chiamata La Rocquaise. Qui dettero libero sfogo alla loro creatività in perenne simbiosi. Sotto l’occupazione nazista finirono nei guai per i loro messaggi anonimi di propaganda antinazista scritti in tedesco e affissi per le vie del paese. Furono arrestate dalla Gestapo, che probabilmente distrusse le loro foto di argomento lesbico, e condannate a morte. Rimasero in prigione dal 25 luglio del 1944 all’8 maggio del 1945 e tentarono anche di suicidarsi senza esito. Claude morì l’8 dicembre del 1954, Marcel il 19 febbraio 1972.

Claude è stata una persona all’avanguardia e sperimentale, anticipando di più di un secolo il narcisismo atavico che sta dietro ai nostri selfie. Si rase capelli, ciglia e sopracciglia a zero, si tinse la chioma di rosa, oro, argento, si vestì in modo stravagante e maschile, ostentò il monocolo, simbolo lesbico dei primi del Novecento, si colorò labbra e guance da clown e inventò la prima maglietta con due cerchietti in corrispondenza dei seni (I’m in training don’t kiss me, Autoritratto del 1927 in copertina), che va tanto di moda oggi. Ha abbattuto gli stereotipi sull’identità di genere dimostrando che non nasciamo con un genere ben definito finché non siamo noi a deciderlo. Ed infine, ha affrontato la sua invisibilità patologica rendendosi visibile per sempre sulla carta fotografica.
