La leggenda dell’acqua tofana e la vera storia delle donne che la crearono

“Girolama, nascondi tutto, per carità di Dio!”, gridò Giovanna alla sua amica che si stava provando il nuovo vestito scollato comprato con i soldi da loro guadagnati. “A cosa ti riferisci?”, disse distratta guardandosi allo specchio. “Alla pignatta che sta bollendo in cucina! L’acqua!”, la sollecitò quasi piangendo. Girolama si voltò stralunata leggendo il terrore nel viso di Giovanna. Udì strepiti di serve e ordini perentori di guardie nel cortile. “Sono arrivati a prenderci”, riferì la sua complice disperata. L’avvelenatrice la strinse a sé. “Non ti preoccupare, Padre Girolamo ci proteggerà”, la confortò.

Quella che sto per raccontarvi è una storia semi-vera. Ci sono abbastanza elementi per considerarla parte di una realtà ma le vite dei suoi personaggi sono abbastanza misteriose e le sue versioni confuse a sufficienza da annoverarla nei meandri della leggenda. Le uniche due fonti mediamente attendibili che abbiamo sono due libretti dell’Ottocento: I misteri dell’acqua tofana di Alessandro Ademollo (1881) e L’acqua tofana di Salvatore Salomone Marino (1882). Ademollo rinvenne nell’archivio di stato di Roma il processo alle ultime avvelenatrici ufficiali dell’acqua tofana, che fino a quel momento non era stato divulgato. Le signore giovani e non la usavano per liberarsi dai mariti nel Seicento e appartenevano a tutti i ceti sociali, soprattutto quelli di alto rango. L’effetto era spalmato in un lasso di tempo proporzionato, ideale per sbrigare gli affari religiosi e pentirsi dei propri peccati. L’autrice della mistura era Teofania d’Adamo, probabilmente madre di Giulia Tofana il cui nome è diventato più leggendario e conosciuto. Il 12 luglio del 1633 Teofania fu giustiziata a Palermo per aver somministrato “acqua maledetta” a diverse persone attraverso Francesca La Sarda. Nel carcere La Vicaria fu affogata, buttata da un pendio, appesa e squartata. Nello stesso periodo Giulia fuggì da Palermo per aver avvelenato il ricco genovese Ippolito Larcari. Si pensa che sia stata la figlia di Teofania perché in Sicilia c’era l’usanza antica da parte del popolo di affibbiare il nome del genitore al figlio come cognome se questo era strano e fuori d’uso.

Palazzo delle Finanze, ex Vicaria, Palermo ©Patrizia Grotta

Non è chiaro cosa facessero le due di mestiere. Marino riporta che Giulia fosse una sensale di matrimoni, ovvero colei che li combina, ma gira molto la versione non provata secondo la quale fosse una prostituta e una volta trasferitasi a Roma con la figliastra Girolama Spana, avesse come amante un frate speziale, Padre Girolamo di Sant’Agnese della Basilica di San Lorenzo Damaso, che le procurava l’arsenico. Era protetta da persone di alto rango e per questo morì per cause naturali nel suo letto nel 1651 nonostante avesse ammazzato molte persone. Non ci sono prove sulle dicerie che morì in un convento o in carcere sottoposta a tortura. Giulia fu famosa nel nome, Girolama invece accrebbe la fama del veleno. Secondo le carte del processo, rimase orfana di genitori in Sicilia, vedova di un Carozzi di Firenze, aveva due figli maschi e vantava legami con l’aristocrazia romana. Tra le persone facoltose era conosciuta per essere indovina, “fattucchiera” e per dispensare la sua acqua quando ce n’era bisogno. La pozione era venduta nelle boccette della Manna di San Nicola, un tipo di acqua miracolosa che trasudava dalle reliquie del santo ed era spacciata come rimedio cosmetico per eliminare le imperfezioni del viso. Chi contribuì a rendere l’acqua tofana celebre però fu il popolo, nel quale Girolama aveva diverse collaboratrici: Giovanna de Grandis e Maria Spinola (Grifola), creatrici di veleno, Laura Crispolti e Graziosa Farina, venditrici. Saranno le stesse che il 5 luglio del 1659 penderanno dalla forca di Campo dei Fiori per aver confessato di aver ucciso seicento uomini in quattro anni.

Boccetta della Manna di San Nicola, foto: basilicasannicola.it

Come furono scoperte? Anche in questo punto la vicenda è fumosa. Marino dice che l’acqua andasse forte tra i giovani sposi. Erano sempre le mogli che avvelenavano i propri mariti e alla fine il Fisco romano scoprì la magagna, condannando le avvelenatrici. Nel libro del cardinale Pietro Sforza Pallavicino, La vita di Alessandro VII, la scoperta dei delitti sarebbe stata fatta in un confessionale. I dettagli del tribunale riferiscono che de Grandis sarebbe stata incastrata da un agente di polizia che le raccontò una storia inventata su un matrimonio infelice e gli offrì grandi somme per uccidere il marito. Le dicerie adducono la colpa alla duchessa di Ceri che, volendosi sbarazzare in fretta del marito, sbagliò dose e lo uccise in un solo colpo. Furono ascoltate le testimonianze di 46 omicidi. La confessione dell’uccisione di seicento uomini si ebbe sotto tortura, dunque non è un numero sul quale fare affidamento e di sicuro esagerato. Spana raccontò dell’esistenza di Giulia Tofana da Palermo, dal quale aveva ereditato la formula ma è più sicuro sia esistita Teofania, piuttosto che Giulia, dato che lo riporta il manoscritto del palermitano Baldassare Zamparrone nel “Compendio di diversi successi in Palermo dall’anno 1632”. Il collegamento con lo speziale Frate Girolamo era stato sfruttato anche da Girolama ma il suddetto non fu mai condannato assieme ad altri nobili esponenti sotto ordine dello stesso Papa. Il più conosciuto era il duca di Ceri, probabilmente avvelenato dalla sua giovane moglie, perdonata ma costretta a risposarsi. Un cliente della gang di donne fu condannato a morte con loro; sei complici e più di quaranta acquirenti delle classi basse si guadagnarono il carcere a vita.

Per quanto riguarda il veleno, il processo di Roma riferisce la versione fornita dalla serva di una delle accusate. “Si fa l’acqua con arsenico e piombo, che si mettono a bollire in una pignatta nuova otturata bene, che non rifiati finché non cali un dito; l’acqua che ne resta è chiara e pulita; presa in vino o minestra provoca il vomito; poi viene la febbre, ed in quindici o venti giorni si muore: bastano cinque o sei gocce per volta in ogni giorno per far l’effetto, e non altera né il sapore della minestra né del vino“. La domestica riporta gli ingredienti acquistati: un grosso di piombo limato, uno di antimonio e un pezzetto di arsenico cristallino. La sua padrona pestava l’antimonio, lo metteva dentro una pignatta piccola, ci versava tanta acqua comune fino all’orlo e la copriva con un coperchio di ferro e acciaio. Chiudeva la bocca della pentola con una pagnotta di pasta per non farla sfiatare. Il composto bolliva per circa un’ora, si levava dal fuoco, si lasciava raffreddare e veniva inserito freddo in una fiaschetta o boccia quadrata. Gli effetti furono verificati dal tribunale su due cani: sul primo venne applicata l’acqua tofana sequestrata alle donne, sul secondo quella riprodotta in laboratorio. Morirono tutti e due.

È altamente probabile che l’acqua tofana com’è raccontata non sia mai esistita. La prima discordanza giace nel manoscritto di Zamparrone che dice che il veleno di Teofania impiegava tre giorni per uccidere. Giulia o Girolama lo avevano perfezionato? E con quali conoscenze? Padre Girolamo ci aveva messo lo zampino? Oppure la dose usata da Teofania era semplicemente più forte. Il principio attivo del veleno è l’arsenico e i sintomi combaciano: bruciore alla gola e allo stomaco, vomito, sete estrema, diarrea. L’antidoto era succo di limone e aceto. Però, si dice l’acqua fosse insapore, quindi doveva esserci un processo in più, non descritto dalla serva, per mascherare il sapore metallico dell’arsenico. Un’ulteriore incongruenza. Inoltre, nell’epoca in cui è stata concepita l’acqua, non c’è nessuna prova che i veleni ad azione lenta esistessero, almeno secondo i trattati di tossicologia (Toxicology in the Middle Ages and Renaissance, Philip Wexter). In un periodo come il Seicento, dove la morte improvvisa era all’ordine del giorno e la scienza forense ai suoi primi sviluppi, è impossibile determinare quali fossero le morti prodotte dalla pozione e quali da cause naturali. Inodore, incolore e insapore, lasciava un bel colorito sulle vittime. Se ci pensate bene, è il veleno perfetto e invincibile, un ideale a cui aspirare.

Tuttavia, il nome dell’acqua tofana divenne leggenda tra il 1700 e il 1850 e sinonimo per indicare veleni letali ad azione lenta. Chi elevò la sua fama a re dei veleni fu Johann Keysler, della Fellowship of Royal Society, che in Inghilterra riconosce meriti sulla scienza naturale. Scrisse anche di un’anziana che si faceva chiamare Tofana nel 1730 rinchiusa nel carcere di Napoli per aver ucciso centinaia di uomini usando il famoso intruglio. Prima di lui nel 1709 il viaggiatore francese Jean-Baptiste Labat descrisse la cattura e l’esecuzione di una giovane donna che vendeva la limpida pozione nelle bottiglie della manna di San Nicola. Per la presenza di arsenico tra le pagine dell’ultimo lavoro di Mozart, fu ipotizzato che il compositore fosse stato avvelenato con l’acqua tofana. Viene addirittura nominata in Uno studio in Rosso di Arthur Conan Doyle (1887), quando Sherlock Holmes si occupa di un caso di avvelenamento. Che l’acqua tofana sia stata realtà o meno, esagerazione o invenzione, per noi del ventunesimo secolo non ha importanza: con la scienza moderna siamo in grado di rivelare subito le tracce di arsenico nel corpo umano. Quindi, vi consiglio di non rifare a casa la ricetta sopra per verificare la realtà della mitologica acqua tofana!

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