La Passione carnale di suor Giulia di Marco che minacciò la Chiesa del Seicento – 1a parte

“Gesù mio! Gesù mio!”, gridò estasiato Aniello nel venire all’interno di Giulia, che lo scrutava in tralice in stato di completo abbandono. L’uomo la guardava come se fosse la reincarnazione stessa della Madonna, pervaso da un fervore mistico mentre si staccava da lei. Suor Giulia di Marco frequentava da qualche mese il suo confessore della Congregazione dei Ministri degli Infermi, il camilliano Aniello Aciero, originario di Gallipoli. Si erano incontrati al capezzale di un ammalato, lui in tonaca nera e croce rossa fiammeggiante camilliana, lei nelle vesti marroni di una terziaria francescana abituata a curare ammalati e moribondi. Il religioso pugliese era rimasto folgorato dal loro primo incontro. La donna aveva lineamenti orientali, un corpo formoso e sensuale, ripresi dalla nonna, una schiava turca. Era figlia di un povero bracciante di Sepino in Molise ed alla sua morte era stata venduta dalla famiglia a un mercante ambulante. Morto anche quest’ultimo, era stata portata dalla sorella di questi a Sessa Aurunca in Campania ed aveva sposato lo staffiere di un gentiluomo che le abitava vicino casa. Una volta incinta, era stata abbandonata da costui, e grazie alla sua padrona partorì segretamente all’Ospedale dei Poveri Orfanelli della Santissima Annunziata, dando via il bambino. Deceduta pure l’anziana, prese i voti per dedicarsi alle opere buone e si diresse verso Napoli, che sarebbe stata sua gioia e rovina. Non aveva ancora trent’anni agli inizi del 1600 e le erano già successe grandi disgrazie. Questa è la storia di un’eresia che avrebbe minacciato di scuotere le fondamenta stesse dell’istituto della Chiesa. L’eresia della Carità Carnale.

Purtroppo il testo sui cui si basa il mio racconto è uno solo, quello del teatino e archivista don Valerio Pagano, redatto nella seconda metà del Seicento. Uno scritto di parte, visto che un testimone diretto dell’ordine denunciò l’eresia di Giulia e l’indagine condotta sempre dai teatini, che erano la polizia segreta della Controriforma, conferirà ulteriore lustro al loro nome. Gli atti processuali sono conservati in Vaticano ma non sono disponibili al pubblico e nel fondo manoscritti San Martino della Biblioteca Nazionale di Napoli si trova il codice 352 che contiene dettagli riguardo suor Giulia e la sua setta. Chi avrebbe mai detto che la venuta di una suora in via Forcella creasse tanto scompiglio? Eppure la sua fama sarebbe giunta fino a Betlemme. Aniello Aciero fu sicuramente il suo primo amante e seguace che ebbe la rivelazione della Carità carnale. Il camilliano era convinto di aver visto Dio in persona in Giulia nell’unione dell’amplesso. Il loro era stato sesso sacro con lo scopo di raggiungere la divinità. Un particolare che suona familiare a chi è esperto di tradizioni pagane (vedi post blog qui). Le caratteristiche scomode erano due: il sesso per arrivare all’estasi divina e una donna come canale di energia. Giulia era il Verbo incarnato che avrebbe regalato la salvezza a chi l’avrebbe desiderata. La Chiesa, in assetto di guerra dopo la defezione di Martin Lutero meno di un secolo prima, non avrebbe permesso ulteriori distorsioni della sua dottrina.

La Carità carnale avrebbe rimediato alle passioni sotto le quali era preda la città di Napoli: faide, delitti e prostituzione sarebbero stati debellati dal libero amore offerto da Giulia.  Aniello creò una santa ad hoc.  La dotò di capacità profetiche, svelandole i segreti dei suoi penitenti, e la mise in contatto con le sue conoscenze altolocate che si estendevano fino al governo spagnolo, che l’avrebbero aiutata a crescere e sostenersi. La suora abbracciava, baciava e accarezzava i suoi seguaci, chiamati Figli, elargendo grazie a non finire per il suo contatto diretto con Dio. Ma fu con l’avvocato Giuseppe De Vicariis che  sarebbe passata alla creazione di vere e proprie orge in una casa in via dei Mannesi. La profana triade si era finalmente composta. I Figli arrivavano nella dimora di sera in carrozze oscurate. Giulia aveva sia donne che uomini come proseliti e non voleva che i maschi superassero il venticinquesimo anno d’età perché più facili da ingannare e adatti a soddisfare donne di ogni età. Gli “esercizi spirituali”, ovvero gli atti sessuali, erano consumati in una stanza ribattezzata Oratorio. Si univano nel segreto dell’oscurità e poi ciascuno tornava a casa sua. Il sesso era una pratica religiosa.

Giulia era diventata una santa vivente, non estranea ad altre del suo tempo tipo Orsola Benincasa e in generale alle tradizioni di Napoli, come allo stesso modo lo è la celebrazione della sessualità. La prima dea venerata fu Mater Matuta (Madre del Mattino), ritrovata in molte statuette pre-romane a Capua, poco distante dal capoluogo campano, seduta sul suo scranno con un’infinità di bambini in braccio e il simbolo del melograno, che indica fertilità. La seconda è Parthenope, che assieme alle sue sorelle non riuscì ad ammaliare Ulisse di passaggio davanti Punta Campanella, e si suicidò andandosi a scontrare con gli scogli dell’isolotto di Megaride, dove sorge ora Castel dell’Ovo. Fu ritrovata dai pescatori che la adorarono come una divinità e si dissolse dando forma al paesaggio di Napoli. La terza è Demetra (Cerere), alla quale le sirene sono collegate. Secondo Ovidio, queste erano le ancelle della figlia Persefone trasformate in creature dal corpo di uccello e testa di donna dalla dea delle messi per aver fallito nel compito di proteggere la ragazza da Ade (l’iconografia popolare gli attribuirà poi la coda di pesce). Strabone, inoltre, dice che a Sorrento ci fosse un tempio dedicato alle sirene, quindi il mito non sarebbe casuale. Il culto di Demetra è stato introdotto nella città di Parthenope da una colonia attica (Napoli è stata fondata dai greci eubei dell’isola di Calcide) . Un tempio dedicato alla dea si trovava nella via di San Gregorio Armeno che conserva un bassorilievo forse raffigurante una canefora, sacerdotessa di Cerere. Per quanto riguarda il sesso, il dio Priapo ha sempre spadroneggiato a Napoli. La festa della Madonna di Piedigrotta era in suo onore, infatti apparteneva alla divinità il tempio della Crypta Neapolitana, luogo di incontro per celebrare la sessualità libera, poi diventato santuario mariano. Le sue statue erano dipinte di rosso e i cornetti contro la malasorte sono reminescenza degli antichi amuleti a forma di fallo volante (approfondimento qui).

Eresie simili a quella di Giulia, erano già capitate in passato, come insegnano i Fratelli e le Sorelle del Libero Spirito e gli Alumbrados o Illuminati. Così come l’occhio vigile della Chiesa aveva già provveduto ad inquisire nel passato i due movimenti, così nel 1606 il frate domenicano Diodato Gentile, vescovo genovese di Caserta e commissario del Sant’Uffizio, avvisò Roma delle oscure riunioni nella casa di via dei Mannesi.

Il Sant’Uffizio ordinò al vescovo di isolare Giulia dai suo seguaci all’inizio dentro casa sua ed in seguito nel monastero di Sant’Antonio da Padova in piazza Bellini. Alla donna fu imposto il divieto di farsi scrivere o ricevere lettere, pena la scomunica. Ad Aciero fu proibito di confessare ed intimato di rimanere all’interno dei confini dello stato della Chiesa. Fu sostituito come confessore della suora dal teatino don Ludovico Antinori, consultore del Sant’Uffizio di San Paolo Maggiore. L’unico che si salvò in modo momentaneo fu De Vicariis. Giulia rimase nel monastero per tre anni, scambiando missive con Giuseppe tramite un’educanda del convento, Violante Toledo, e l’uomo riusciva anche a visitarla di persona qualche volta. Perciò, fu trasferita di nuovo in un monastero di Cerreto Sannita. La città era spaccata in due: il potere spagnolo voleva indietro Giulia, l’Inquisizione (che a Napoli non era spagnola ma del Sant’Uffizio) applicava la legge della Chiesa per coloro che si allontanavano dalla retta via. Nel frattempo cambiò commissario, Diodato Gentile aveva lasciato il posto al vescovo di Nocera dei Pagani, Stefano De Vicariis, e Giuseppe sfruttò l’identicità del cognome per spacciarsi come parente e scagionare la suora. Il vescovo si portò la donna nel convento di Nocera, in cui vi rimase per otto mesi. Provvide al suo rilascio con un documento inviato a Roma la seconda alta carica del regno dopo il viceré, il decano del Collaterale (consiglio del vicereame di Napoli) Fulvio Di Costanzo, appellandosi all’innocenza della donna. Giulia tornò in città nell’ottobre del 1610. La sua tragedia però doveva ancora iniziare.

To be continued…

Seconda Parte

 

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