La donna stava dipingendo il bambino della sua amica. Avrebbe voluto fosse più naturale, ma la madre, Tuzia, le aveva detto che non avrebbe mai appeso un quadro nella sua stanza con suo figlio che si esplorava le camere. Rise di divertimento con Tuzia alle spalle che la osservava. Rumore di tacchi decisi sul legno e non furono più sole. Artemisia respirò profondamente nell’intingere il pennello nella tavolozza senza voltarsi. Sperava che l’uomo andasse via. Questi, invece, si avvicinò e con un colpo di mano le fece volare via la tavolozza con i pennelli. La pittrice si alzò dalla sedia davanti al dipinto con disappunto mentre Agostino Tassi ingiungeva a Tuzia di andarsene via. Artemisia scrutò con sguardo deluso la sua amica ed accompagnatrice, che si era dimostrata troppo complice dell’uomo che la voleva circuire. L’artista la invitò a passeggiare per la sala e dopo tre passeggiate alla donna parve di sentirsi male ed avere la febbre e l’uomo le rispose: “Io ho la febbre più di voi”. Agostino si accostò alla camera da letto, spinse Artemisia dentro e serrò la porta a chiave.
“Mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le coscie ch’io non potessi serrarle et alzandomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntatomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro che io sentivo che m’incedeva forte e mi faceva gran male che per lo impedimento che mi teneva alla bocca non potevo gridare, pure cercavo di strillare meglio che potevo chiamando Tutia. E gli sgraffignai il viso e gli strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una matta stretta al membro che gli levai anco un pezzo di carne, con tutto ciò lui non stimò niente e continuò a fare il fatto suo che mi stette un pezzo addosso tenendomi il membro dentro la natura e doppo ch’ebbe fatto il fatto suo mi si levò da dosso et io vedendomi libera andai alla volta del tiratoio della tavola e presi un cortello e andai verso Agostino dicendo: ‘Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vittuperata’. Et esso aprendosi il gippone disse: ‘Eccomi qua’”. Artemisia gli tirò il coltello che lo scalfì appena sul petto facendogli uscire una punta di sangue. Agostino con noncuranza si riallacciò il gippone e vedendola piangere le promise di sposarla. Con questa promessa la pittrice si calmò e gli permise di approfittarsi di lei numerose volte.
Questa sopra è la prima deposizione che Artemisia fa il 28 marzo del 1612 nella sua casa in via Santo Spirito in Sassia, a Roma. Il padre, Orazio Gentileschi, grande amico del Caravaggio, ha denunciato al papa Paolo V il suo compagno di lavoro ed amico, Agostino Tassi, chiamato lo Smargiasso probabilmente per i suoi trascorsi in galera e per il suo temperamento irruento. Gli aveva chiesto di insegnare alla figlia la prospettiva e lui per tutta risposta l’aveva insidiata fino a che non aveva ottenuto ciò che desiderava con la forza. Il giorno della Santa Croce (forse 3 maggio del 1611, altri dicono 5 o 6 maggio) la stupra e la illude di prenderla in moglie consegnandole successivamente pure una fede in segreto. Tuttavia, Artemisia apprende che Agostino ha già una sposa a Livorno, che molti insinuano abbia fatto ammazzare da alcuni sicari, per essere scappata con un altro, dato che era stata tradita prima dal pittore con la cognata Costanza. Bel giro, eh? D’altronde, le fedine penali degli artisti sono raramente pulite e le loro vite raramente facili tra il Cinquecento ed il Seicento, come ci insegna quella del rivoluzionario Caravaggio. Insospettisce anche il motivo per cui Orazio abbia denunciato lo stupro della figlia solo a fine commissione con Agostino (stavano completando gli affreschi della loggetta Casino delle Muse nei giardini del palazzo del cardinale Scipione Borghese a Monte Cavallo), nonostante Artemisia gli abbia confessato l’accaduto qualche giorno dopo. Un risarcimento di soldi? Un tentativo di rubare un quadro in casa di Orazio, una Giuditta di media grandezza? Non si saprà mai. L’unica cosa certa è che il padre non stava inseguendo gli interessi della figlia, ma i suoi.
In quegli anni infatti lo stupro era un reato contro la proprietà (sarà contro la persona solo nel 1996 in Italia). Era ancora definito “rapporto sessuale CON una donna contro la sua volontà”. La violenza veniva denunciata solo se nuoceva alla reputazione o agli affari dei suoi famigliari o di chi le era vicino. I colpevoli si facevano pochi giorni di prigione o nemmeno uno, il danno era risarcito in denaro. Ed è probabile, anche se non è riportato, che pure la vicenda di Artemisia si sia risolta in questo modo (forse costituendo la dote per il matrimonio con Pietro Antonio Stiattesi un mese dopo il processo). Non senza gravi conseguenze per la salute mentale della vittima. Fare il pittore era considerato un mestiere per uomini e una donna che si avventurava su una strada del genere era di sicuro promiscua e ribelle. Il furiere Cosimo Quorli, anch’egli interessato alle grazie di Artemisia, le dirà riferendosi al suo amico Agostino: “N’havete dato a tanti ne potete dar’anco a lui”. Le persone mormoravano ed essere una donna che poteva vivere in modo indipendente del proprio pane era l’equivalente all’essere una puttana priva di padroni. Inoltre, quando una donna si lasciava stuprare, significava che non aveva opposto abbastanza resistenza. E per l’epoca “fare resistenza” significava opporsi sino alla morte. Artemisia fu trattata dal tribunale ecclesiastico come una colpevole. Prima, due levatrici le esaminarono la vagina per confermare lo sverginamento, poi, la donna si sottopose volontariamente alla tortura della sibilla per dimostrare che dicesse la verità. I suoi polsi furono legati e le dita delle mani furono avvolte da cordicelle che un randello stringeva fino a stritolare. Le dita si gonfiavano per la non circolazione del sangue. Artemisia sacrificò la sua arte per essere creduta. Aveva pagato cara la sua libertà in un mondo di uomini. Tutti erano suoi nemici: il padre, l’amante e l’amica Tuzia. Agostino diede ripetutamente della puttana alla diciottenne deflorata, negò sempre la sua colpevolezza ed ottenne solo una testimonianza a suo favore. Forse se Cosimo non fosse morto prima del processo, ne avrebbe avute tre. Il pittore rimase in prigione nel periodo del processo e dopo la scarcerazione fece pace con Orazio e ridiventarono amici.
Artemisia si trasferì a Firenze dove iniziò la sua singolare carriera di pittrice. Diventò talmente famosa che Carlo I d’Inghilterra la volle nella sua corte. Ma il ricordo dello stupro sarà immortalato per sempre su una tela che dipingerà nella città toscana: Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613, Museo di Capodimonte, Napoli). Giuditta è l’eroina che nella Bibbia libera la città ebrea di Betulia dagli invasori assiri, uccidendo il generale Oloferne con la sua scimitarra. Nel quadro Giuditta vestita di nobile blu (era una vedova molto ricca) taglia la testa ad Oloferne con un pugnale aiutata dalla sua domestica in abito rosso che tiene fermo l’uomo come se stessero scannando un maiale. Le due donne sono impassibili perché stanno compiendo la giustizia divina. Oloferne gira la testa quasi in segno di supplica verso degli immaginari spettatori. Il sangue schizza e cola copioso dal suo giaciglio come quello perso da Artemisia in pieno ciclo al momento dello stupro, tanto che confessò: “quando lui mi violò la prima volta io havevo li miei tempi et veddi che il mestruo era più rosso dell’altra volta”. È possibile che Artemisia abbia contratto le labbra per non farlo entrare e sia uscito del sangue in più per il feroce sfregamento. Secondo molti critici, tra cui Roland Barthes, la sua vendetta è stata consegnata a quella rappresentazione, seguita da un’altra versione più particolareggiata, che si è trasformata in un #MeToo più efficace di mille racconti.
