Molte di noi vorrebbero vestirsi da coniglietta di Playboy, per un party di carnevale o un appuntamento sexy. Diverse l’hanno già fatto. Una mia follower ha detto di averle sempre ammirate, “quelle donne mi sono sembrate sempre forti ed emancipate“. Un’altra invece ha commentato “troppo maschilismo in giro per farlo con serenità e senza pregiudizi“. Hanno entrambe ragione. Quando ci vestiamo ad una festa o per un partner stiamo giocando per un giorno, ma se dovessimo indossare un costume del genere per lavorare in un bar sarebbe tutta un’altra storia. Non ci sentiremo sicure o rispettate. Accuseremo di sessismo il datore di lavoro e ce ne andremo perché, a meno che non si tratti appunto del Playboy Club, non ne varrebbe la pena. Questo è il mondo di oggi. Quello di ieri invece era nettamente diverso.

Non si può approfondire la conoscenza sulle conigliette di Playboy, le Playboy bunnies, senza conoscere il fondatore della rivista più famosa d’America: Hugh Hefner. La sua vita al college cambiò nel 1948 quando uscì il rapporto Kinsey sul comportamento sessuale nella donna e nell’uomo. Scoprì che le apparenze della società erano piene di ipocrisia e capì che era ora di iniziare a parlare liberamente di sesso. Prima trattò l’argomento sul suo giornale universitario, Shaft, e dopo essersi sposato e licenziato da Esquire, mise insieme nella sua cucina a Chicago con due suoi amici la rivista Stag Party (festa dello scapolo). Il nome però era già preso ed il suo amico Eldon Sellers suggerì Playboy dal nome della casa di produzione di automobili in cui aveva lavorato sua madre a Detroit, la Playboy Company. Invece di un cervo (stag), la nuova mascotte fu un coniglio (non si sa bene il motivo, forse per il fatto che il titolo ha due Y che ricordano le orecchie del coniglio). La rivista uscì ufficialmente nel dicembre del 1953. Il logo fu creato per il secondo numero dal grafico Art Paul, che divenne la costante di ogni copertina in una curiosa caccia al coniglio. Playboy registrò subito uno straordinario successo per il connubio tra lifestyle e nudo di classe in carne ed ossa (fino ad allora c’erano solo pin-up disegnate sulle riviste).

All’inizio una mano sulla via della popolarità gliela diede la foto nuda di una giovane Norma Jean (Marilyn Monroe), capelli lunghi, sfondo rosso, braccio alzato a scoprire il seno, ma era noioso affidarsi a fotografie già pronte. Quindi Hugh assunse il fotografo Vince Taijiri e creò le playmates, le ragazze della porta accanto, una per ogni mese, e più tardi i famosi paginoni che si aprivano per avere un’esperienza quasi 3D della donna. Ma Playboy non fu solo fatto di ragazze senza veli. Sin dal principio seguì il credo della libertà d’espressione, sulle sue pagine trovavano posto neri e bianchi in maniera paritaria all’epoca del segregazionismo. Le sue famose interviste approfondite interpellarono uomini come Miles Davis, Malcolm X, Marthin Luther King. Era sempre in prima linea per i diritti civili (tanto da fondare a difesa di questi la Playboy Foundation nel 1965) e per quelli delle donne. Promosse la contraccezione, l’aborto, la libertà sessuale e il femminismo, nonostante fosse la rivista nemica numero uno delle femministe radicali americane. Hugh Hefner tentò di confrontarsi con queste in un’intervista prima con Gloria Steinem e poi in tv al Dick Cavett Show. Andò male in entrambi i casi perché una parte del movimento femminista attaccava l’immaginario sessuale stereotipato di cui Playboy era suo malgrado portabandiera.

Le conigliette erano di sicuro uno dei motivi per cui Hefner non veniva preso sul serio. Ma indovinate un po’ chi fu a lanciare l’idea? Una ragazza con cui usciva Hugh Hefner, Ilsa Taurins, un’immigrata lettone. Non che Hefner non ci avesse pensato, ma aveva lasciato perdere perché il coniglio di Playboy era un maschio. Il suo braccio destro, Victor Lownes, invitò invece Taurins a lavorare sul design con sua madre, una sarta. Venne fuori un costume di satin con la coda a pon pon e il cerchietto con le orecchie soffici da coniglio. Hefner suggerì di sgambarlo, aggiunse colletto e polsini, e bustino con lacci laterali da stringere. Il prototipo fu rivelato nello show tv Playboy Penthouse, indossato da Cynthia Maddox, fidanzata di Hefner. La stilista Renée Blot fu reclutata successivamente per apportare modifiche. È l’unica uniforme da servizio che ha ricevuto un brevetto. I colori più popolari erano il rosso, il blu pavone e il verde smeraldo. Le misure delle coppe erano troppo grandi e molte ragazze le imbottivano. I tacchi delle scarpe erano alti all’incirca sette centimetri. Le divise diventarono elemento di moda negli anni, nei Sessanta c’erano le fantasie di Emilio Pucci sui bustini e motivi psichedelici nei Settanta.

Il primo Playboy Club aprì a Chicago il 29 febbraio del 1960 in 116 E. Walton Street. Ogni socio aveva delle chiavi con il logo del coniglio sopra e l’iscrizione costava cinquanta dollari ma i prezzi al bar erano stracciati, 1.50 dollari per cibo, bevande e un pacchetto di sigarette con l’accendino, proprio per fare gola anche ai giovani scapoli più attenti. Ai membri veniva data una chiave col simbolo del coniglio ed erano chiamati keyholders. Le conigliette guadagnavano molto di più in una settimana che in un normale mestiere da cameriera grazie alle laute mance che inserivano dentro il loro costume. Se lo Stato in cui il club era lo prevedeva, le bunnies ricevevano anche una paga minima ad ora. Nel libro The Bunny Years tante conigliette intervistate dichiarano di aver svolto questo lavoro per la sua alta rimuneratività. Si incontrava il jet-set cittadino ed internazionale, si imparava ad intrattenere relazioni pubbliche e ovviamente il mestiere da cameriera. Playboy prendeva ragazze che frequentavano college, non solo per la politica della ragazza della porta accanto, ma anche per avere donne intelligenti e argute. Assumeva pure modelle, aspiranti attrici e ragazze madri. All’epoca la rivoluzione sessuale doveva ancora avere inizio. Certo, il requisito base era essere carine, con estrema flessibilità, se scorrete le foto di quegli anni. Tutte le etnie potevano inserirsi nella squadra. Col tempo, venne la disciplina.

Ancora una volta, fu una donna a consigliare di inserire un training di base: Alice Nichols. Coniglietta del club di Chicago, aveva commesso due figuracce con Hugh Hefner: non l’aveva riconosciuto chiedendogli insistentemente la chiave e gli aveva rovesciato addosso i drink. Alice sviluppò assieme al fratello di Hefner, Keith, responsabile del portamento delle bunnies una specie di corso di formazione. Non si poteva uscire con clienti, ospiti, visitatori, manager, direttori di sala, barman, musicisti, performer e aiuto camerieri, dare i propri cognomi, indirizzi di casa o numeri di telefono. L’eccezione alla regola dell’uscita era fatta solo per membri di una stretta cerchia di dirigenti del giornale, tra cui Hefner e Lownes, che si chiamava No. 1 Keyholders. Ma non si era costrette ad andare con loro. Fidanzati e mariti si incontravano ad almeno due isolati dal club. Per aggiungere maggiore controllo, un’agenzia di detective teneva sotto sorveglianza il comportamento delle conigliette nel club.

C’erano delle pose distintive da assumere: Bunny Stance, Bunny Dip, High Carry, Bunny Crouch, Bunny Perch. La prima era una posa da modella con un piede dietro l’altro e il fianco leggermente spinto fuori. La seconda, molto famosa, era una graziosa arcata all’indietro a ginocchia unite impiegata quando si servivano i drink per evitare che il seno uscisse fuori dal costume. La terza era necessaria per portare un vassoio pieno di bevande sul palmo piatto della mano alto sopra la testa. La quarta era obbligatoria nel prendere gli ordini al tavolo durante gli spettacoli, prevenendo le bunnies dal piegarsi su un cliente ed esporre se stesse. La quinta era per far riposare le conigliette quando non servivano drink (non potevano sedersi, dovevano stare sempre in piedi), potevano appoggiarsi erette sul retro di una sedia o su un corrimano. La coniglietta doveva accogliere i clienti con un sorriso caldo, mettersi in Bunny Stance, posizionare in Bunny Dip i tovagliolini da cocktail col logo in bella vista dalla parte del cliente, chiedere di vedere la chiave e prendere le ordinazioni partendo dalla signora (se c’era, altrimenti l’uomo a destra del Keyholder). Il vassoio era organizzato con un ordine preciso e bisognava conoscere a memoria i nomi di 143 bottiglie di alcolici (31 scotch, 16 bourboun e 30 liquori). Alla fine del training c’era un quiz con diciotto domande di verifica. Erano divise in mansioni: Door Bunnies, Coat Check Bunnies (guardaroba), Cigarette Bunnies, Roaming Camera Bunnies (fotografe serate), Gift Shop Bunnies, Floor Bunnies (cameriere), Pool Bunnies (biliardo). Guardate questo vecchio video per un riassunto del training: https://www.youtube.com/watch?v=XqBBsN8jxi0.

Meglio come gioco che come lavoro la coniglietta, eh? Eppure Gloria Steinem quando scrisse nel 1963 su Show della sua esperienza da bunny per una settimana a New York non vide serietà e disciplina ma solo quello che voleva vedere. Donne sfruttate in vestiti degradanti che le esponevano come pezzi di carne. È vero, il Playboy Club era una fantasia maschile divenuta realtà ma le conigliette venivano trattate bene e si emancipavano grazie ai cospicui guadagni. Non era un mestiere che si poteva fare tutta la vita, pur se c’è chi lo fece per quattordici anni tra le testimonianze di The Bunny Years, ma sviluppava indubbio savoir faire e spigliatezza nelle donne, impensabile in un’epoca in cui il nostro unico scopo era partorire figli e avere un mestiere rispettabile (da abbandonare una volta sposate). Le Playboy Bunnies di quel periodo sono diventate donne in carriera nello spettacolo e in altri settori come quello immobiliare o letterario. Molte ragazze mi hanno detto che vorrebbero indossare quel costume per acquisire confidenza con il loro corpo. Il bustino è uno strano strumento di tortura democratico assieme alle coppe. Ci fa tutte belle, filiformi e seno dotate.

Io non ci vedo niente di male in questo stereotipo sexy. È elegante e sofisticato, non volgare o trash come le magliette a fil di seno e i pantaloncini sopra al sedere. In realtà mi piacciono entrambi ma perché sono convinta che ognuno dovrebbe andare in giro come si sente, senza venire multato o invitato a coprirsi. Quando mi sono vestita da coniglietta con un costume semplice e non uguale all’originale, mi sono sentita desiderabile pur senza coppe. Immaginate come doveva essere con quello vero, ancora di più incoraggiante in questa direzione, con la sensazione del raso morbido contro la pelle e la percezione di essere una performer sul palco. Si può sempre argomentare che lo scopo ultimo non fosse nobile, ma c’è della genialità nel far sentire bene una persona in un costume imbarazzante (per l’epoca) e allo stesso tempo avviarla verso una carriera lavorativa che non è quella della strada.
