The Substance, messaggio femminista potente che si perde nella settima arte

Sarò onesta, non sono riuscita a guardare tutto il film senza coprirmi gli occhi almeno una decina di volte. The Substance di Coralie Fargeat non è una pellicola body horror per i deboli di cuore o per le persone impressionabili. Nonostante io sia “abituata” a vedere questo genere, anche slasher piuttosto cruenti, e il recente Grotesquerie (FX su Disney+), alcune scene, soprattutto iniziali e a metà film, hanno avuto la meglio su di me. Per paradosso, il finale mi è sembrato più grottesco, ridicolo e sicuramente triste, che impressionante. Tuttavia, se riuscite a non alzarvi dalla poltrona durante la visione, meritate un Oscar perché il film contiene una tematica femminista che deve essere ascoltata e assorbita. Come una sostanza fastidiosa.

Elisabeth Sparkle (Demi Moore)

La trama inquietante

Elisabeth Sparkle (Demi Moore), vincitrice di un premio Oscar come attrice, alla soglia dei cinquant’anni è licenziata dal programma di aerobica che conduce per raggiunto limite d’età secondo il suo disgustoso produttore Harvey (Dennis Quaid). Distratta dalla rimozione di una pubblicità con la sua faccia, fa un pauroso incidente con la macchina e rimane illesa. In ospedale, un giovane e avvenente infermiere con una voglia su un polso le analizza la schiena e dice ad alta voce che lei sarebbe idonea. Una volta fuori, Elisabeth si ritrova in tasca un biglietto con una chiavetta Usb con su scritto “The Substance” e un numero di telefono. Il suo contenuto è uno spot pubblicitario ridotto all’osso che la avvisa che c’è un modo per avere una versione di sé migliore e più giovane ma deve ricordarsi un particolare importante: lei è una sola.

Inizialmente riluttante, decide che non ha nulla da perdere e ordina La Sostanza che si capisce subito sia illegale e segreta dalla modalità di reperimento, ma questo non sembra preoccupare la protagonista. In un bagno completamente composto da piastrelle bianche avviene la trasformazione di Elisabeth che si inietta la sostanza e rinasce dalla sua spina dorsale per partenogenesi, bella e giovane e con un volto diverso: Sue (Margaret Qualley). La ragazza ricuce la schiena del corpo della sua versione più anziana perché tra sette giorni dovrà fare il cambio con lei. Le due, infatti, vanno rispettivamente in ibernazione e ogni giorno devono stabilizzarsi con il liquido del sistema nervoso centrale della “matrice” Elisabeth. Sue riesce ad essere presa nella nuova versione del programma di aerobica della cinquantenne e inizia la scalata per il successo. Elisabeth, invidiosa, le mette i bastoni tra le ruote per il fatto che non la considera parte di sé e Sue vuole sempre più tempo per godersi giovinezza, denaro e sesso. Così il vecchio corpo si deteriora ma non l’insicurezza e scarsa autostima di Elisabeth che si traducono in avidità e egoismo quando l’attrice non rinuncia allo spettacolo di Capodanno nei panni di Sue. La situazione le sfugge di mano con macabre e spettacolari conseguenze.

Il sentirsi fisicamente inadeguati

Le donne sono sempre esteticamente sotto pressione. Almeno il 64% degli utenti TikTok ha usato filtri per la realizzazione dei suoi video. Io stessa li uso triggerata dal fatto che mi si vedano occhiaie, punti neri e faccia spenta. La scusa è che non ci va di truccarci e che anche con la luce giusta qualche difetto si può vedere. Quando, però, iniziamo a non voler uscire con la persona che ci piace perché non ci sentiamo abbastanza belle, il problema diventa patologico. Elisabeth Sparkle dà buca a Fred perché l’immagine che le rimbalza il suo specchio è imperfetta. La perfezione non esiste ma il mondo patriarcale di immagini in cui viviamo è chiaro: la donna deve essere perfetta, l’uomo può essere imperfetto.

La regista Coralie Fargeat è partita dall’esperienza personale. Compiuti i quarant’anni, ha cominciato ad essere tormentata da voci nella sua testa: “Ora la tua vita è finita. A nessuno importerà di te”. Girare il film è stata la sua personale catarsi che probabilmente l’ha liberata dall’incertezza della nuova età, ma non tutti hanno un’arte a disposizione per liberarsi dei propri demoni. La chirurgia estetica, leggera o pesante, è spesso considerata l’unica soluzione a insicurezze estetiche e, soprattutto, mentali. Lo stesso femminismo moderno e intersezionale non mette più in discussione bisturi e filler, al suon di “se piace a lei, chi sono io per giudicare?”. Questo ci fa capire quanto la modificazione del sé sia diventata naturale e parte integrante del nostro modo di essere.

Sue (Margaret Qualley)

Chirurgia estetica come soluzione all’insicurezza

Avendo guardato molto Keeping Up with the Kardashians durante la pandemia, non posso fare a meno di ricordare che Kylie Jenner e Khloé Kardashian sono quelle che hanno modificato più pesantemente il loro aspetto fisico negli anni per colpa di un’atavica insicurezza. L’essere riprese in un reality ha aumentato la loro inadeguatezza tanto che adesso fanno una vita da semi-recluse non solo in quanto star tv ma anche per il timore di essere costantemente giudicate. Non possiamo sapere quali siano le conversazioni private in famiglia, ma quando Khloé è dimagrita all’improvviso e si è modificata la faccia, nessuno nella sua famiglia si è opposto pubblicamente. Lo stesso vale per la nuova inquietante versione di Christina Aguilera che sembra essere tornata indietro nel tempo di vent’anni. Queste donne non sono state fermate perché è considerato normale dalla società americana modificarsi se si ha denaro per farlo. Altrimenti le loro possibilità di lavorare sono limitate. Una scusa tipicamente hollywoodiana e di matrice patriarcale a cui poche star si sono opposte nel tempo. Una è Demi Moore, scelta da Fargeat per la sua storia personale, rivelata nella biografia Inside Out (2019).

Elisabeth è un personaggio fittizio che incarna la stessa insicurezza di Aguilera, Kardashian e Jenner. Vuole sempre di più e anche quando si rende conto che la sua versione potrebbe morire, non si ferma. Perché ormai non può tornare più indietro, è diventata una sorta di strega alla Hansel e Gretel. Non ha più bisogno di mangiare i bambini per riacquisire la gioventù perduta. Si fa mangiare dalla sua sé bambina, Sue. Nome non scelto a caso dalla regista: doveva rievocare ragazze-bambola come Marylin Monroe e Lolita. È importante sapere che sia Demi Moore che Margaret Qualley hanno indossato protesi o sono state sottoposte a giochi di luce specifici rispettivamente per essere imbruttite e rese perfette. Anche qui come altrove in questa società, non credete a tutto quello che vedete.

La solitudine di Elisabeth

Elisabeth vive tutti i suoi drammi fisici dentro un appartamento-suite che sembra far parte di un condominio di lusso vista colline di Los Angeles (il film è girato tutto a Parigi e in Costa Azzurra). Non ha nessuno, solo se stessa. Senza un sistema di supporto come amici o famiglia, non può farcela. Il vicino di casa vuole solo fare colpo su di lei e non si accorge per nulla di quello che le accade intorno. Anche Fred (Edward Hamilton Clark), suo ex compagno di classe, non può accedere alla sua Torre d’avorio se non invitato. E lei gli dà buca senza più vederlo all’inizio dei problemi con Sue. Gli uomini giovani e irruenti che la sua “versione migliore” si porta a casa possono essere solo temporanei data la precarietà della loro situazione.

Un particolare che mi ha colpito è che Sue sceglie di continuare a lavorare nello stesso posto che ha trattato male Elisabeth. Siccome la coscienza è di base la stessa, sembra che il personaggio viva in un loop da cui non riesce a liberarsi. Non va fuori dalla sua comfort zone, trova quell’universo rassicurante perché non ne ha conosciuti altri. È per questo che prende la Sostanza: per essere accettata dagli altri. Quando si trasforma in Elisasue (spoiler necessario, sorry), addirittura, ritaglia la foto della gigantografia che aveva incorniciata nel suo salotto e la appiccica alla sua faccia deforme, convinta di riuscire ad ingannare tutti per un’ultima volta. Non le riesce e viene additata come “mostro” dalla platea scioccata dalle sue fattezze mostruose, lei rantola in pena: “Sono io!”. Se non fosse per i successivi effetti splatter, la scena sarebbe commovente.

La partenogenesi e i vari riferimenti cinematografici

Ho trovato singolare la riproduzione tramite partenogenesi, forse anche questa un’istanza femminista. La Sostanza, infatti, è in grado di innescare la partenogenesi umana impossibile per i mammiferi ma presente in altri organismi come pesci, rettili e insetti. Partenogenesi significa letteralmente “nascita virginale,” dato che è possibile senza i geni dello sperma. Tramite la meiosi le cellule si replicano e separano. Nell’automissia, una versione della partenogenesi, si può creare una prole simile al genitore ma non l’esatto clone. È ciò che succede ad Elisabeth caduta a terra dopo essersi iniettata la Sostanza e Sue fuoriesce dalla sua schiena, in una scena stile Alien: Covenant (2017). Nell’antichità la partenogenesi era il processo col quale molte divinità femminili creatrici di mondi si riproducevano, come Gaia o Gea che generò Urano e gli elementi naturali nella Teogonia di Esiodo.

Il film ha una sfilza di reference che sono omaggi a grandi maestri del cinema come Stanley Kubrick, David Cronenberg, David Lynch e Alfred Hitchcock. Alcune sono evidenti nel corridoio rosso con la moquette art deco simile a quella di Shining (1980, Kubrick), e altre più sottili come l’ombra sul viso di Elisabeth, molto Strade Perdute (1997, Lynch), quando telefona alla società che fornisce La Sostanza. Nel mangiare in modo ossessivo il pollo preso dal frigorifero ci ho trovato anche un riferimento a Jennifer’s Body (2009). Altri omaggi sono a La donna che visse due volte (1958), The Elephant Man (1980), Carrie (1976) e Society – The Horror (1989). Nel complesso, la pellicola risulta molto referenziale e autoreferenziale come se la regista volesse fare il botto, rischiando nei suoi esercizi stilistici di far perdere il senso del messaggio femminista e la relativa riflessione a riguardo.

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